Insieme
ad altre montagne dell'Appennino abruzzese, la Majella è stata
oggetto fino a ieri di vicende tristi e infuocate della storia italiana:
il "brigantaggio post-unitario". Pagine di cronaca che gli uomini
hanno seppellito ed il tempo inesorabile non riesce a cancellare. Solo il
sibilare graffiante degli sci sulla neve dura rompe il silenzio della
montagna. Volute di nubi sfilacciate solcano l'aria, mescolandosi al
candore della coltre bianca che abbondante ricopre le valli. La pesante
cappa grigia incombe bassa sulla terra e rende l'ambiente intorno ancor
più selvaggio ed ostile. Sulla cresta che dalla Majelletta sale con un
crinale sinuoso e affilato in direzione di monte Focalone, il colpo
d'occhio sull'orizzonte è impressionante e immenso, fino alle coste
dell'Adriatico. Sugli ampi e incassati valloni che incidono il versante
settentrionale della Majella, inutilmente lo sguardo indugia alla ricerca
di un passaggio franco tra dirupi rocciosi e boschi fitti. L'atmosfera,
cupa e inquietante, è oltremodo melanconica; la stessa che in quel freddo
inverno del 1861 pervadeva l'animo di Fabiano Marcucci detto Primiano,
‘brigante per necessità’, che alla macchia si era dato per una contrastata
vicenda d'amore di manzoniana memoria. In questo luogo inospitale, a 2140
metri di quota, dove le bande brigantesche da tempo si riunivano, per
tornare subito dopo a disperdersi nei meandri della grande montagna, il
comando generale dell'esercito dell'Abruzzo Citeriore avrebbe disposto
negli anni successivi la costruzione di un fortilizio in pietra,il blockhause, per il ricovero delle truppe che ormai senza quartiere
davano la caccia agli ultimi irriducibili appartenuti alla temuta Banda
della Majella. Oggi solo poche pietre squadrate, incrostate di ghiaccio,
spuntano dalla neve in una forma vaga di antico manufatto: apparentemente
è quasi tutto quel che resta a simbolo di una vera e propria guerra civile
che subito dopo l'unità d'Italia incendiò queste contrade, all'epoca reame
Borbonico in rapido disfacimento. Nel lasso di tempo che ci separa da
quegli avvenimenti, con molta fatica e una passione indefessa, gli storici
hanno ricostruito seppur parzialmente le cronache di quei mesi intensi che
abbracciano un arco di dieci anni, dal 1860 al 1870, in cui tutti gli
uomini del tempo, di ogni età e ceto sociale, misero in scena la tragedia
che regalerà al Risorgimento italiano una delle pagine più amare e
sanguinose della sua storia: il "Brigantaggio post-unitario", a cui fece
seguito inesorabile la repressione altrettanto feroce dei "Piemontesi".
Gli atti di archivio, prodotti o acquisiti all'epoca dalla magistratura,
dall'esercito e dall'amministrazione pubblica, seppelliti dalla polvere
del tempo, nascosti per reticenza o per vergogna, sono tornati così alla
luce, grazie alla certosina pazienza con cui alcuni autori illuminati
hanno cercato di dare un improbabile ordine ad avvenimenti certamente
confusi e difficili da analizzare, ma sicuramente per troppo tempo rimasti
occultati. Ne emerge un quadro, se non del tutto nuovo certamente
accurato, sulle vicende storiche di una neonata Italia, all'epoca già
divisa in due, ove oltre la frontiera dello Stato Pontificio e giù giù,
verso le Calabrie, passando per gli Abruzzi, la Campania, la Basilicata e
la Terra di Lavoro, il tempo sembrava fosse fermo, in pieno feudalesimo.
Il 70 per cento della popolazione, braccianti, contadini, operai,
nullatenenti, disoccupati, viveva economicamente e culturalmente
soggiogata in una indigenza estrema. I notabili del tempo, i
"Galantuomini" di antico retaggio, da secoli si spartivano il controllo
della vita sociale ed economica di paesi e borghi arroccati su crinali di
monti impervi, condannati ad un isolamento secolare durato fino a tempi
recenti. La "jus primae noctis", la barbara usanza medievale che toglieva
al contadino anche l'onore sulla intimità della propria donna, in queste
terre aveva attraversato immutabile i secoli e, simbolo estremo di un
potere a cui tutto è permesso, rimane forse l'esempio più lampante di una
vita sociale estremamente corrotta e decadente, in cui i ceti più umili
della popolazione erano costretti a subire soprusi e angherie a dismisura,
oltre che a vivere nella miseria più nera. In molti si sono provati a dare
al brigantaggio - per certi versi endemico in alcune regioni - delle
‘ragioni’ più nobili e razionali di quanto la realtà inconfutabile degli
atti di archivio lasci trasparire; ma il periodo a cavallo tra il 1860 e
il 1863, noto agli storici come quello della "reazione" al governo
piemontese, fomentata dagli esuli Borboni, dalla Chiesa e da una parte
della nobiltà, non è altro che una delle tante sfaccettature di un
fenomeno in fondo estremamente complesso, le cui cause vanno certamente
ricercate nelle profonde differenziazioni economiche e sociali che
caratterizzavano la società dell'epoca. In verità il brigantaggio è stato,
sin da epoche remote, il frutto di sussulti imprevedibili e
incontrollabili di un popolo affamato e diseredato che periodicamente,
come un fiume in piena, rompe gli argini e tutto travolge con la sua
violenza atavica ed istintiva, salvo poi tornare a sopirsi per subire
nuove e più inumane sofferenze. "Il brigantaggio - scrive Tommaso Pedío -
(...) è l'endemica protesta dell'oppresso e del povero; è la
manifestazione di vendetta e di odio contro torti impuniti in una società
in cui la Giustizia, ferocemente severa nei confronti del povero, è sempre
disposta a minimizzare ed anche ad ignorare gli arbìtri e gli illeciti dei
potenti".
In fuga dal potere costituito
Fabiano
Marcucci, alla ricerca di un contatto con i temibili capibanda che
controllano monti, terre e paesi sul versante settentrionale della Majella, percorre in quell'inverno la montagna in lungo e in largo.
Infaticabile attraversa boschi e valloni, supera valichi e cime impervie:
come una preda inseguita da presso, non si concede sosta. Quelle offese
morali che improvvisamente lo hanno costretto ad abbandonare casa ed
affetti, bruciano dentro come aceto sulle ferite, alimentando quel fuoco
di vendetta che lo sta divorando giorno dopo giorno. Non è nuovo ai disagi
e alla fatica, fin da bambino ha provato sulla sua pelle la vita aspra ed
errabonda a contatto con la natura: è cresciuto forte e ribelle. Conosce
la grande montagna come le sue tasche, ma così lontano non si era mai
spinto. I territori da sempre frequentati erano quelli immediatamente a
ridosso del suo paese natale, Campo di Giove, dove il limitrofo Guado di
Coccia mette in comunicazione i versanti occidentale e orientale della
Majella, costituendo quindi luogo di grande valore strategico, civile e
militare. Dal Vallone di Femmina Morta a Tavola Rotonda, dai pascoli alti
del Porrara alla Fonte di S. Antonio, conosce ogni sasso, ogni cespuglio;
non c'è grotta o dirupo che abbia segreti per lui. Ma questa fuga
precipitosa è un'altra faccenda: una porta si è chiusa alle sue spalle e
non resta che correre, correre senza voltarsi, per sfuggire a chi gli dà
una caccia accanita, come sempre capro espiatorio per le paure ancestrali
di una classe sociale pronta a difendere con lo scudiscio il potere
acquisito e la ricchezza accumulata. Ore e ore trascorse nella solitudine
dei pascoli a badare agli armenti, hanno regalato a Primiano lunghi attimi
di riflessione e un carattere introverso e taciturno, che lo rendono più
simile ad un eremita che ad un uomo destinato a guidare una masnada di
fuorilegge. Come le vicende disgraziate di tanti altri briganti, anche
quella di Primiano sarà una strada senza ritorno: l'illusione amara di un
sogno di riscatto, la cui conclusione era già stata scritta: nel sangue.
La voglia di imbracciare il fucile per azzerare quell'eterna
diseguaglianza sociale, diventerà ben presto solo una lotta feroce per la
sopravvivenza, a cui solo pochi personaggi potranno sottrarsi. I più
finiranno cadaveri, esposti nelle piazze a monito di popolazioni
irrequiete, esse stesse spesso troppo vicine alle ‘ragioni’ del brigante,
un po' meno a quelle di un novello stato estraneo e inflessibile,
portatore di nuove tasse e altre gravi imposizioni. "(...) i contadini
avevano sopportato per anni il fardello della prepotenza e del sopruso -
scrive Giovanni Presutti nella biografia romanzata dedicata al Marcucci -
con rassegnazione, come un destino fatale: una piaga del mondo rurale. Ma
quando, dopo troppe sopportazioni, uno si ergeva e gridava la sua rabbiosa
sete di giustizia, essi silenziosamente approvavano, istintivamente
innalzavano ad eroe colui che si ribellava all'ingiustizia". E' la storia
di sempre: figure di banditi e proscritti a cui, da memoria d'uomo,
l'appoggio della popolazione non venne mai meno. I cosiddetti manutengoli,
a cui la Legge Pica, promulgata alla fine del 1863 per la repressione del
brigantaggio, prometteva rigore implacabile, furono al pari dei briganti,
figure di spicco in queste vicende. Erano essi a volte nobili reazionari,
preti, frati, ma soprattutto gente della stessa estrazione sociale del
brigante, pastori, braccianti e contadini: "popolazioni rurali che,
costrette a esercitare la loro attività agricolo-pastorale, in territori
spesso controllati dai briganti, legati ad essi da rapporti di parentela o
di amicizia, intimoriti dai loro ricatti o affascinati dalle loro imprese,
provvedono a rifornirli di cibo, armi, munizioni, vestiario. Offrono loro
sicuri nascondigli e informazioni, recapitano biglietti di ricatto" (M.
Ciarma, "Brigantaggio ottocentesco in Abruzzo", Chieti 1993). Quegli
stessi conoscenti e simpatizzanti, curiosi e commossi, nello stesso
silenzio riservato attesero Primiano al suo ritorno nel 1911 al paese
natale, dopo 45 anni di carcere. Sfuggito per miracolo alla morte per mano
della fallace giustizia umana, Primiano attese sereno il giudizio finale,
quello per cui non vi è appello né per i vinti, né per i
vincitori.
Padrone sulle cose e sugli uomini
In
queste terre aspre adagiate sul versante meridionale della Majella, su un
piccolo acrocoro che guarda la Valle Peligna, l'abitato di Campo di Giove,
di sicura origine preromana, costituisce l'ultimo insediamento umano,
prima che l'ambiente aspro della montagna prenda il sopravvento. Oltre, in
un unico balzo, la folta faggeta si trasforma in gariga e pascolo arido.
Una cresta netta come il dorso di un capodoglio delimita su questo
versante i grandi altipiani cacuminali e le pietraie d'alta quota. La vita
in questi tenimenti di montagna è dura, da sempre; gli unici regali
concessi all'uomo sono quelli spontanei della natura e del bosco
soprattutto. Generazione dopo generazione, gli uomini di queste marche
sono ascesi alla montagna, per raccogliere legna, frutti di bosco, funghi,
erbe officinali, ma anche per produrre carbone, pascolare gli armenti e
soprattutto cacciare, fin dal paleolitico, quando l'uomo raggiungeva su
questa montagna stazioni poste a quote veramente elevate. Con il passare
dei secoli la vita è rimasta sostanzialmente immutata, quasi fino ai
nostri giorni; una vita piena di stenti e per molti versi avara di
benefici per gran parte della popolazione, come d'altronde in tutti i
territori di montagna. Qui, è vero, l'eco delle grandi vicende storiche è
sempre arrivata un attimo in ritardo, un po' attutita, ma le leggi non
scritte che hanno regolato la vita di ogni borgo, ogni giorno dell'anno,
per secoli, sono le stesse che hanno caratterizzato il corso della storia
in tutte le terre del meridione d'Italia, dai secoli bui che seguirono
alla caduta dell'Impero Romano fino al Medio Evo, dal Rinascimento al
secolo dei Lumi. Alla metà del secolo XIX, il fluire delle piccole cose
nella vita di ogni giorno restava ancora invariato, scandito da regole
severe quantunque anacronistiche, dettate molto tempo prima e fatte
rispettare con arroganza da chi nella storia ha sempre rivestito una
figura sociale predominante: il notabile di turno, posto dal destino al di
sopra di ogni legge e giudizio, in fondo padrone assoluto sulle cose e
sugli uomini. Tre erano le famiglie patrizie che alla metà dell'800
controllavano la vita sociale di Campo di Giove; tra di esse quella dei
Ricciardi, la cui casa nobiliare ancora affaccia le finestre nella
piazzetta del municipio, era la più bellicosa e legata a rigide forme di
discriminazione sociale. Proprietari di un grosso patrimonio in case,
terre ed armenti essi governavano in paese ‘con polso’ ed alterigia. Per
molti conterranei i vantaggi che derivavano dalla dipendenza nei confronti
di questa famiglia, a volte assumevano il sapore amaro del fiele: nessun
prezzo è ben pagato per vedere annullata la propria identità sociale e
personale, in un rapporto di subordinazione assoluta. Anche Fabiano
Marcucci, perduto il padre, è spinto dalle necessità familiari a lottare
contro la miseria, fin da bambino. Acquisiti i primi rudimenti del
mestiere, entra alle dipendenze di Don Vincenzo, patriarca della famiglia
Ricciardi. Come "pecoraio" inizia le peregrinazioni sulla montagna,
seguendo le greggi negli spostamenti diurni e dormendo all'addiaccio negli
stazzi, insieme agli animali. Da lassù spesso contempla il piccolo
campanile svettante sui tetti del paese, ma le vicende della comunità e i
problemi della famiglia sembrano adesso così lontani, che la solitudine e
i disagi della vita pastorale acquistano ben presto quasi un sapore intimo
di distacco dal mondo, in cui trovare una dimensione propria di pensieri e
di sguardi che vagano nella contemplazione del paesaggio intorno.
Crescendo innocente d'animo e forte di carattere Primiano entra così nelle
grazie del suo padrone, al quale non dispiace mostrare generosità nei
confronti di un giovinetto che presto potrà rivelarsi uomo di assoluta
fiducia. E' questa la magnanimità a doppio taglio di chi, in fondo,
conserva verso i propri simili una posizione che lo rende padrone assoluto
della vita e della morte! Ma un altro avvenimento si appresta a porre la
sua pedina sulla scacchiera del destino, al punto da condizionare il
futuro di Primiano fino alla fine dei suoi giorni. Sulla montagna che
sovrasta Palena, dove sovente si reca con le greggi, conosce una ragazza
che insieme alla famiglia attende ai lavori abituali dello stazzo:
mungitura delle pecore e preparazione del formaggio. Giovannella è giovane
e bella e Primiano, a cui non mancano di certo le attenzione insistenti di
altre sue coetanee, se ne innamora in modo dolce e naturale, senza
pensieri, in sintonia con la semplicità dell'ambiente e della vita
pastorale. Ma come in un romanzo di cappa e spada, il fato ha in serbo
qualcos'altro per i due giovani, che non è il semplice frutto di un amore
sereno. Lo zampino di alcune virtù umane tra le meno nobili: invidia,
malignità, bramosia, iracondia, sono pronte a miscelarsi in una pozione
esplosiva che getterà ben presto Primiano nella disperazione, operando in
lui quella trasformazione che ne farà negli anni a seguire, uno dei
briganti più temuti e crudeli della regione, ricercato dalle polizie di
tre province, con una taglia sulla testa di ben 4.250 Lire; all'epoca
cifra esorbitante. Più volte un'amica di famiglia, per nulla
disinteressata al fascino del giovane, cerca di avvicinarlo: è sua
intenzione convincerlo ad accettare in sposa sua figlia Lina. Primiano è
volitivo ma fermo di carattere e gli oppone un netto rifiuto; ormai si è
legato animo e corpo alla sua Giovannella. Dopo qualche tentativo
infruttuoso la donna, soprattutto sfruttando al meglio la sottile arte
femminile della seduzione, decide di ricorrere all'aiuto di Don Vincenzo,
a cui certamente nulla si può rifiutare: la sua parola è legge in paese.
Ma le cose non vanno proprio per il verso dovuto: Primiano risponde al suo
padrone con un rispettoso ma ugualmente fermo rifiuto. Da una parte il
carattere forte e indipendente del ragazzo, dall'altra un uomo arrogante,
accecato dall'ira nel vedere la sua rispettabilità calpestata. Tra loro,
la perfidia di Francesca, madre di Lina che, approfittando delle sue
grazie ancora floride, continua ad attizzare il fuoco in Don Vincenzo.
Primiano comincia a pagare le spese di questa situazione incresciosa: non
è più nelle grazie del padrone, che si fa via via più severo e irascibile,
fino al punto da destinarlo esclusivamente ai lavori nel palazzo, per
impedirgli di vedere Giovannella. Il furto di un maiale, della cui
custodia il giovane avrebbe dovuto rispondere, è la scintilla che accende
la tragedia! Don Vincenzo, che nel frattempo aspettava l'esito di un suo
ultimatum a proposito di Lina, esasperato e ferito nell'onore, colpisce il
ragazzo al viso con uno scudiscio. Primiano a stento si trattiene, ma
gridando terribili ingiurie e dando fiato a tutto il suo rancore represso,
si allontana giurando vendetta. Quella notte stessa, salito agli stazzi
dei Ricciardi, non visto dai mandriani, libera mucche e pecore in gran
numero. Cresta su cresta, dal Guado di Coccia sale verso Tavola Rotonda.
Qui, raggiunti gli appicchi rocciosi che sovrastano la caratteristica
"Pescia dè Baccalà", con fredda determinazione precipita giù dal dirupo
gli animali, uno ad uno. Pur sperando ancora di svegliarsi da un brutto
sogno fatto ad occhi aperti, egli vaneggiando si allontana dalla zona,
consapevole che qualcosa nella sua vita si è definitivamente lacerato. Si
rende conto che la sua libertà è finita e con essa perduti per sempre sono
la casa, gli affetti, il lavoro, il sogno di una vita onesta e
rispettabile; ma non ha timore, solo per poco ancora dovrà tenere a bada
la sua ira. Primiano non ha scelta, come tanti prima di lui - una
moltitudine - ormai in fuga dal potere costituito deve darsi alla macchia:
"Brigante si dovrà fare...", diranno i suoi compaesani, sconvolti dalla
notizia, ma segretamente solidali con il giovane che, solo fra tanti, è
stato capace di reagire ad una ingiustizia che da secoli pesa come un
macigno sui loro cuori.
Triste Epilogo
Qui
termina il racconto della tradizione orale su Fabiano Marcucci: a 21 anni,
dopo aver vagato per qualche tempo sulla montagna che sovrasta il paese,
si accoda ad una banda brigantesca che agisce tra il Molise e la Puglia.
Ben presto, per la sua intraprendenza, ne diventerà il capo indiscusso. A
questo punto, se proprio si vogliono ignorare le cause che all'epoca
portarono a quella che può essere interpretata solo come ribellione di
massa ad un sistema sociale basato su leggi ormai anacronistiche, il resto
della storia, tratto dai documenti di archivio, può essere solo uno scarno
resoconto dei crimini di cui egli si rese protagonista. La montagna è
grande, nel silenzio dei boschi e nell'omertà dei pastori, un gran numero
di uomini, per necessità o per vocazione, qui troverà sicuro rifugio.
Almeno fino al giorno in cui, braccati da un esercito (quello piemontese)
sempre più forte e spietato, finiranno sgozzati o decapitati e, sul
lastricato delle piazze, esposti al pubblico ludibrio. Per la storia
saranno marchiati d'infamia in eterno. Nessuno ha voluto distinguere tra
di essi il ladro dall'assassino, il politico dal soldato sbandato, il
malfattore dal morto di fame. Accomunati sotto un appellativo tra i più
spregevoli, migliaia di giovani renitenti alla leva (8 anni durava
all'epoca la ferma) di fatto furono tramutati in criminali. Lo stesso
avvenne per le decine di migliaia di sbandati che un dì avevano costituito
le file dell'esercito garibaldino, come di quello borbonico dopo la presa
di Gaeta. Una folla immensa di uomini laceri e denutriti, senza più alcun
futuro. Finiranno tutti alla macchia per necessità, consci che un giorno
non lontano, senza pietà alcuna, sarebbero stati passati per le armi. Il
brigantaggio sulle nostre montagne fu una vicenda di inaudite proporzioni
di cui, ad un secolo e mezzo dagli accadimenti, solo pochi libri di testo
riescono a parlare in nome della verità storica. Una scia di sangue che ha
imbrattato monti e valli dell'Abruzzo: non c'è recesso roccioso, sentiero
o radura nel bosco che non abbia risuonato per il crepitio dei fucili e le
grida di agonia dei moribondi. Tutto il massiccio della Majella, per la
sua particolare conformazione e le caratteristiche così peculiari, che
ancora oggi ne fanno uno degli angoli più selvaggi dell'intero Appennino,
ha costituito dopo l'unità d'Italia, uno dei luoghi dove maggiormente si
fece sentire la recrudescenza del fenomeno brigantaggio. Le vicende della
famigerata Banda della Majella e di altri famosi capibanda come Nunzio
Tamburrini ed Ermenegildo Bucci in particolare, si intrecciano con quelle
di Primiano Marcucci che per quasi sei anni porterà scompiglio nei paesi e
nelle campagne intorno alla Valle Peligna, all'Alto Sangro, fino al
Vastese. Al momento dell'arresto decine di delitti, sequestri, furti e
grassazioni innumerevoli, costituiranno i suoi principali capi d'accusa.
Tra un'azione e l'altra la sua banda trovò sempre rifugio sui monti della
Majella, all'epoca sicuramente meno ‘addomesticati’ e ancor più
irraggiungibili di quanto lo siano oggi. Quello che colpisce soprattutto,
ricostruendo l'attività di queste bande, è appunto l'incredibile mobilità
che le distingueva, con la quale erano capaci di spostarsi velocemente da
un territorio ad un altro, superando anche grandi distanze. Cosa notevole
questa, tenendo conto dello stato miserevole della viabilità che collegava
le diverse province dell'ex Regno di Napoli e del fatto che gli
spostamenti avvenivano quasi esclusivamente attraverso sentieri e
mulattiere che scavalcavano i passi montani. Al termine di
quest'‘avventura’, breve ma intensa, un ennesimo colpo di scena suggellerà
per sempre il destino di Fabiano Marcucci detto Primiano. Ormai stanco
della vita errabonda che stava conducendo, assalito forse dal rimorso per
gli innumerevoli atti commessi o, anche, presagendo in qualche modo la
fine di quella fortuna sfacciata che lo aiutava a tenere in scacco
esercito e polizia, da tempo si nascondeva nella campagna romana, al pari
di altri briganti che ivi sfruttavano l'indifferenza o il beneplacito
della polizia francese nello Stato Pontificio. Ha in mente qualche ultima
azione: un ‘buon colpo’ che gli permetta di raggranellare quanto
necessario per emigrare in America, ultimo sogno di libertà. Non andrà più
da nessuna parte! Per lui si spalancheranno solo le porte del tribunale
prima e del carcere poi. "Nannina", l'amante che Primiano aveva nella
campagna di Velletri, ragazza volitiva e spregiudicata, lo aveva tradito,
vendendolo alle forze dell'ordine in cambio di una delle tante taglie che
pendevano sul suo capo. Epilogo meschino questo, ma non fu il primo né
l'ultimo: molti dei briganti più irriducibili verranno infatti catturati
solo grazie alle confessioni forzate e alle delazioni, finanche dei propri
compagni. Ma, come disse Gabriele Aversa, "la storia è il respiro di
tutti, dei morti e dei vivi", mentre a Campo di Giove qualcuno è ancora
convinto di poter ritrovare prima o poi uno dei tesori nascosti da Zi'
Primiano sulla "sua montagna".
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
M. CIARMA, Brigantaggio ottocentesco in Abruzzo,
Chieti 1993.
A. DE JACO, Il Brigantaggio Meridionale, Roma
1976.
F. D'AMORE, Gli ultimi disperati. Sulle tracce dei
briganti marsicani prima e dopo l'unità, l'Aquila 1994.
F. MOLFESE, Storia del brigantaggio dopo l'Unità,
Milano 1996.
P. MASI, Memorie di Gasparoni, Parigi
1867. |