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Le origini
di Pràtola Peligna affondano le loro radici lontano nel tempo, legate
alle vicende dei popoli che da sempre hanno abitato la conca di cui il
paese fa parte. Nel suo territorio, durante alcuni scavi effettuati nel
1971, sono stati ritrovati i resti fossili di un mammut (elephas antiquus), ma già a suo tempo Antonio
De Nino aveva trovato delle iscrizioni italiche e
romane. Con un
aggancio più avanzato nel tempo, si è recentemente parlato di millennio,
con riferimento ad un documento del 997 d.C. Con R.D. 21. IV. 1863,
n.1273, fu aggiunta l'indicazione di "Peligna", una attribuzione
che accompagna da sempre le genti di questa conca, ma con riferimento
generale, derivante dalla presumibile esistenza di un lago, che trovò
sfogo nel passaggio di Intermonti, le attuali gole di Popoli, lasciando
una zona melmosa, per cui "peligno" deriverebbe dal greco "peline", fango. L'aggettivo "peligno" viene
usato con leggittimo orgoglio da Ovidio, nato nella vicina Sulmona, quando dice di sé: "Pelignae
dicar gloria gentis ego",
io sarò detto la gloria della gente peligna.
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Si
tratta della gente - non va dimenticato - che coagulò intorno alla vicina
Corfinio la lotta per la guerra "sociale" contro Roma, onde
ottenere l'estensione dei diritti di cittadinanza romana anche ai trascurati
alleati italici. Pràtola appartenne per lungo tempo alla vicina Badia
Morronese, sede madre dell'ordine dei Celestini, fondato da Pietro Algeri,
che si era ritirato in eremitaggio in una grotta del prospicente Morrone.
Pietro era un personaggio eccezionale e da semplice monaco salì al soglio
pontificio col nome di Celestino V,
restandovi però soltanto per pochi
mesi, dal 29 agosto quando fu incoronato all'Aquila fino al 13 dicembre
1294, quando a Napoli rinunciò alla tiara.
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Il suo
gesto suscitò diversi ed opposti giudizi ed egli è ancora universalmente
noto per il cenno (da molti ritenuto improprio, e fondamente alla luce
delle ricerche più aggiornate) che si vuole intendere come riferito a lui
da Dante Alighieri nel verso <<colui che fece per viltade il
gran rifiuto>>. In anni a noi più vicini (1968), lo ha riportato
alla ribalta il dramma di Ignazio Silone, L'avventura
di un povero cristiano.
Pràtola fu data in feudo ai Celestini da Carlo II d'Angiò, nel 1294, a
seguito dell'assunzione al papato di Celestino V, ed ampliato con altre
concessioni, come quelle di Clemente IV e Carlo III d'Angiò: un servaggio
molto duro e pesante, tale da giungere - a parte tutto il resto - a
pretendere la presa di possesso, da parte dei monaci, di quelle proprietà
i cui titolari fossero morti senza eredi maschi, da assegnare con una
nuova investitura.
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Lo
stemma dei Celestini, costituito da una croce cui si
attorciglia un serpente, è una presenza ancora diffusa nella zona. Il
servaggio ebbe termine nel 1807, con la soppressione dei Celestini di S.
Spirito del Morrone da parte di Napoleone I. Nel corso dei secoli, come
gli altri centri della zona, Pràtola visse i suoi giorni di routine,
punteggiati a tratti da eventi eccezionali come le ricorrenti epidemie di
peste, i terremoti, le immancabili guerre tra eserciti nostrani e
stranieri, con il consueto corollario di invasioni ed assedi. Nella
seconda metà del 1400 iniziò a fregiarsi della qualifica di "universitas". Fedeli al governo borbonico, nel 1798 e 1799 i
pratolani guidati da Sante Rossi (che finì assassinato) e dal di lui
fratello, il sacerdote don Pelino, si sollevarono in massa contro i
Francesi invasori, partecipando a quei moti che segnarono l'inizio della
rivolta, che - sotto la guida del capomassa introdacquese Giuseppe Pronio
- andò ben oltre la zona peligna.
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Pràtola
pagò il suo schieramento filoborbonico subendo nel marzo 1799 anche una
rappresaglia da parte dei Francesi, che saccheggiarono il paese ed
uccisero sei persone, oltre al Parroco, don Michele Di Prospero. Il
carattere fiero e indipendente dei pratolani ha fatto sì che essi fossero
protagonisti di rivolte contro lo strapotere dei governanti, come avvenne
il 7 ed 8 maggio 1848 (questa volta contro il governo per il quale si
erano battuti mezzo secolo prima), allorquando i contadini si ribellarono
contro Ferdinando di Borbone, il re che affermava di poter controllare e
dominare il popolo con tre "effe", vale a dire feste, farina e
forca. A Pràtola ci furono morti, feriti e saccheggi: una pagina non del
tutto chiarita dalle ricerche storiche, con risvolti oscuri. Il paese
diede il suo contributo ai moti risorgimentali, nel cui àmbito assume un
valore particolare la presenza - a fianco di Giuseppe Garibaldi, nel 1867
- di un gruppo di volontari (una trentina, tra cui alcuni accorsi dai
paesi vicini), organizzato ed equipaggiato dal pratolano capitano Onìa
Ortensi. I volontari, forniti addirittura della leggendaria camicia rossa,
partirono dalla villa di Enrico Tedeschi,
poco distante da Pràtola, la sera del 16 ottobre 1867 e, tra difficoltà
e peripezie varie, raggiunsero i garibaldini tra il 25 e il 26 ottobre, in
tempo per partecipare alle operazioni di Monterotondo e Mentana. In attesa
di avanzare su Roma, parteciparono ad alcune scaramucce, ma venne l'ordine
di tornare a casa, per l'insuccesso globale di quell'impresa garibaldina.
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Nel 1873, Pràtola fu agitata
dalle querelle
per il trasferimento - effettuato da mons. Tobia Patroni, vescovo di
Sulmona - della parrocchia dalla chiesa di
San Pietro Celestino al Santuario della Madonna
della Lìbera;
una faccenda che si sviluppò con vicende alterne, fino alla composizione
negli Anni Venti. Da allora, il
Santuario è affidato alle cure dei Padri Maristi. Il contributo di
sacrificio del paese alla Prima ed alla Seconda Guerra Mondiale fu
notevole. Il 17 aprile 1934 vide
una insurrezione di protesta per l'aumento delle
imposte, che cadeva in un momeno di grossa depressione economica,
specialmente per i danni apportati dalla fillòssera ai vigneti della
zona, elemento
portante della economia locale.
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Anche
questa volta i fatti degenerarono: ci fu una sparatoria, con morti e
feriti, arresti in massa (ottocento persone) e pesanti condanne. L'ultima
guerra ha coinvolto da vicino anche Pràtola, per la presenza nel suo
territorio di un dinamitificio, obiettivo di pesanti bombardamenti aerei
da parte degli angloamericani. Grossi problemi vennero anche dalla
massiccia presenza di soldati alleati, prigionieri nel vicino campo di
concentramento n.78 di Fonte d'Amore, andati allo sbando dopo l'armistizio
dell''8 settembre 1943 e ricercati dai tedeschi, che giunsero a fucilare
alcune persone accusate di aiutarli, il pratolano giuseppe Di Simone,
unitamente a Giuseppe D'Eliseo, Antonio D'Eliseo e Antonio Taddei, della
vicina Roccacasale.
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