È
un protagonista: fondamentale il suo contributo nella tradizione
del rito arcaico, che, dopo il riscatto dall'idolatria, perpetua
il calendi- maggio cocullese. Il sacerdote virgiliano viveva nel
regno del mito, quando in un'area primitiva e contadina si
celebravano nel rito fiorale la fecondità, la prudenza,
l'immortalità; quando i celebranti erano ancora impressionati dai
contorni nitidi del Mercurio greco, scaltro e
traffichino, a cui la fantasia può far anche risalire
l'eredità dei ciurmatori, e
stabilire dei collegamenti fra questi ed i «sampaolari»,
possibili lontani eredi di quegli abitanti di Celano (l'allora
capitale della contea) che più tardi fuggirono in Sicilia in
seguito alla vendetta di Federico 11. Con l'avvento del
Cristianesimo il serparo non poteva conservare la veste e la
dignità sacerdotali. E se il culto si è riallacciato a ricordi
atavici, ciò è avvenuto con tale saldezza di vincoli morali e
religiosi che il rito, momento importante nel solco della
tradizione, si è leggermente trasformato e si è calato senza
troppi danni nella nuova dimensione religiosa. Oggi è un ragazzo
o un contadino qualsiasi, che nella caccia ai serpi esprime con
naturalezza l'agilità e la forza della gente dei campi. L'erede
del vecchio serparo si presenta con una veste più aderente alle
esigenze della vita contemporanea ed alle mutate condizioni
economiche e sociali.
Fino
al tempo di Aligi era prevalentemente pastore o contadino, magari
spesso avvolto in un alone leggendario che sapeva quasi di sacertà
e maturità (mi riferisco a Edia Fura; tuttavia il professar Di
Nola ricorda un serparo cocullese del 1768, che rilevo essere a
quell'epoca diciannovenne. Infatti Simone, così si chiamava,
nacque nel 1749 da Rocco Chiocchio e da Felicia Ferrante); ma oggi
per lo più è giovane e studente. Insomma pare che i tempi
abbiano reso il serparo più «raffinato», anche nel raccogliere
il retaggio e nell'assumere l'impegno dell'offerta. Consideriamo
inoltre che qualche decennio addietro egli viveva in una
dimensione più tranquilla, poiché non era ancora sottoposto al
bombardamento dei cronisti, che talora - purtroppo - non sono
stati all'altezza del compito loro affidato, quando, nel
tratteggiare la figura del serparo (cioè di tutti i nostri
serpari), hanno insinuato qualcosa che potrebbe far ritenere che
questo sia più sensibile ad una inesistente «industria dei serpi»
(!) che non alla celebrazione della festa. «San Giuseppe, la
prima serpe», echeggia l'adagio. Le bestie si svegliano dal
letargo ed escono dalle tane, dove avevano svernato, per scivolare
fra le pietre e gli anfratti e i cespugli e sul marrone cupo delle
zolle rivoltate. Saranno l'omaggio del serparo.
Questi
ora spunta cauto fra rovi e macigni, alla ricerca dei rettili
usciti per prendere il primo sole. E nel primo giovedì di maggio
il dono al Taumaturgo si trasformerà in una fantasmagoria viscida
e multicolore intorno alle pieghe nere del mantello rigido.
Bibliografia:
"I
serpari a Cocullo"
Nino
Chiocchio
Chi
erano i ciurmatori? Furori detti anche ciaralli, ciarmatori,
ciarlatani, si è adottata la definizione che ne ha dato il
linguista introdacquese
prof.
Giammarco: ciarlatano, incantatore di serpenti, dei quali porta
seco in una scatola un certo numero, e mostrandoli ai gonzi narra
loro fatti strani per ingannare e trarne l'utile. Giusto: il
ciarmatore era proprio così; la definizione è esatta. Ma il
personaggio appartiene al passato, sia pure recente, quando degli
imbroglioni, cocullesi e non, circolavano nel contado e nella
campagna romana e - dicendo di essere dotati di particolari virtù
nella guarigione di persone morsicate da serpi velenose -
approfittavano della credulità di alcuni spacciando inciarmature
e immaginette. Ma oggi quel personaggio è soltanto un ricordo ed
esso non deve sfiorare la figura del serparo, se non per farci
stabilire un parallelo fra stirpi che derivano da santi delle
capacità terapeutiche: nel caso nostro (tralasciandone altri,
anche del mondo pagano) fra i Ciaralli marsicani (e peligni) e la
famglia Cancelli, originaria di un borgo del Folignate, che
avrebbe derivato da San Paolo la facoltà di guarire i malati di
sciatica.
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